Ieri ho incontrato una famiglia. Un inizio con il “lei”, si sono scusati di raccontarmi la loro storia “chissà quante ne sente lei”. Ho chiarito subito che non solo le sento, ma le vivo in prima persona, essendo madre di un ragazzone di 24 anni che ha avuto il suo percorso più o meno accidentato. L’atmosfera è subito cambiata, ci siamo riconosciuti fratelli e sorelle e ci siamo annusati in modo diverso.
Una patologia rarissima, una famiglia che cerca risposte e non le trova nel sistema. Un ragazzo ora quindicenne che non verbalizzava per poi diventare esattamente l’opposto. Una sorella più grande, in mezzo alla tempesta. Una storia come tante, alla ricerca di risposte, possibili soluzioni. Lui che nell’adolescenza sta diventando più ingestibile, sfoga le sue frustrazioni anche con la violenza.
Mi è venuto d’istinto di suggerirgli uno psicoterapeuta, che possa aiutare L. ad affrontare questo periodo bruttissimo della nostra vita, durante il quale tutti noi ci sentiamo inadeguati, insufficienti, lottiamo per uscire dal bozzolo confortevole dell’infanzia (e a volte per rimanerci) per acquisire a tutti gli effetti una nostra identità indipendente dagli altri, una nostra “forma”.
“Non ci avevamo pensato, pensavamo che, come per la sorella, fosse un periodo, ma ora è difficile da gestire”.
Due osservazioni. La prima, general generalista, è che nella nostra cultura i periodi prolungati di depressione, irritabilità, disagio, “prima o poi passano”. Curiamo qualsiasi raffreddore con pillole magiche, ma se a soffrire è la nostra psiche non ricorriamo alla cassetta degli attrezzi e alle soluzioni che ci aiuterebbe a stare meglio.
La seconda è ancora più spiazzante: per le persone con disabilità, dato il problema cognitivo, non si pensa che ci possa essere necessità di un supporto di rinforzo e indirizzo. Ed è invece proprio per loro, che hanno tanti strumenti in meno di intelligenze nella norma, che è più necessario.
Come aiutare una persona, con strumenti intellettuali divergenti, a far fronte ai cambiamenti dell’adolescenza? Ad affrontare l’inevitabile paragone con compagni più skillati, più attinenti ai modelli di conformità di questa società, spietati nei confronti degli altri e così tanto diversi da quello che è il percepito del proprio sé?
Ritorniamo al concetto di persona. Se non cambiamo la nostra concezione di “persona con disabilità” in un concetto di “persona” (punto), vivremo sempre il “minus” rispetto ad un’astratta idea di “normale”, negando anche inconsciamente e non volontariamente diritti che dovrebbero invece essere intrinseci all’essere umano. Intere parti della vita vengono sottovalutate, se non del tutto negate.
Apriamoci quindi all’ascolto e all’osservazione, forniamo e utilizziamo strumenti che possano aiutarci, in questi momenti storici non facili, a trovare una nostra dimensione di ben-essere.