Ieri, 25 aprile. Interviste delle Iene: pochi sanno cosa si festeggia, fra i “giovani” e anche un po’ meno giovani. “Se mi facevi una domanda di geografia… ero forte in geografia”.
Io ho accumulato un po’ di ricordi rubati, su quel periodo che va dalla nascita di mia madre (1929) al 1944.
Mio zio, classe 1916, che aveva in casa una copia del libro di Bedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio”. Io, lettrice onnivora, un giorno gliel’ho chiesto in prestito. Mi ha guardata con uno sguardo strano, un lampo dietro le pupille. Era restio a separarsene, ma dopo essersi fatto promettere che l’avrei riportato me l’ha dato.
Qualche giorno dopo sono andata a restituirlo (i libri, all’epoca, li divoravo in ore notturne per arrivare subito alla fine, affamata di parole, frasi, sensazioni).
Non ha voluto parlarne, lui che era stato anni prigioniero in Russia, “disperso” come si diceva allora, senza notizie per la sua famiglia, la moglie (mia zia). Mi ha solo detto che la realtà era molto, molto peggiore di quello che era scritto. Se qualcuno ha letto il libro, sa che è crudo all’inverosimile e non risparmia molto al lettore. Bene, anche questa descrizione non riesce a far capire quanto quegli uomini hanno passato e provato sulla loro pelle, al punto di non volerne parlare mai più, come una ferita rimasta aperta ed esposta senza possibilità di guarigione.
Mia zia mi ha raccontato che non sapeva nulla di lui, avevano perso le tracce, nessuna notizia, avevano anche perso le speranze di rivederlo vivo, altro che non fosse l’ostinazione della sua speranza e convinzione che l’avrebbe rivisto. Neanche lei mi ha mai voluto raccontare di come fosse tornato, l’ombra di se stesso, nel fisico e nello spirito.
L’altro mio zio, fratello di mia madre, era su una nave diretta in Albania. Silurata, affondata. E’ rimasto una notte intera aggrappato ad un salvagente, lui che non sapeva nuotare, minatore, montanaro che il mare non l’aveva mai visto, frequentato, assaggiato. Non è mai più, mai più, tornato al mare. Non si è più neanche avvicinato. Diceva che ne aveva avuto abbastanza di quella massa d’acqua.
Mia mamma mi racconta la fame. La fame che superava ogni cosa. E loro si reputavano fortunati, perché in montagna qualcosa si trovava: castagne, patate. E poi mi racconta il terrore, la paura, la paura che era sempre presente. Prima, perché non si poteva parlare. Si doveva stare attenti a quello che si diceva, a come ci si comportava. Si camminava quasi strisciando, per non farsi vedere, notare. Guai ad attirare l’attenzione. Era piccola, lei, ma se lo ricorda per quello che ha visto nei suoi fratelli, di 11 e 13 anni più grandi.
E durante la guerra: le sirene, i rifugi, gli sfollati.
Il passaggio del fronte: “le donne le prendevano tutte, giovani o vecchie”. Ricorda in particolare una sera, quando erano dovute andar via dal paese, si erano rifugiate in un fienile. Mia zia, notoriamente schizzinosa, sentiva la puzza delle capre e si è intestardita: andiamo via. Le parole di mia mamma “e meno male che siamo andate via. Quella notte è passato il fronte, e hanno preso anche la nonna che era in casa. Ci siamo salvate per la puzza delle capre”.
Non ho avuto il tempo di parlare con mia nonna, è morta che avevo 10 anni. Il nonno era morto molto molto prima, prima della guerra, di una malattia ai polmoni. Durante la guerra stavano tutti insieme in uno stabile al centro del paese. Anzi: stavano tuttE insieme, perché gli uomini erano al fronte. Un gran gineceo che si sosteneva a vicenda, lottando ogni giorno per portare qualcosa a tavola e sperando di rivedere i loro uomini, figli, cognati e mariti.
Ho letto molto su quel periodo. Non credo che la lettura possa essere paragonata all’esperienza diretta; ma qualcosina se non altro smuove, fa riflettere, induce a pensare.
No, non occorre essere comunisti per essere contro la guerra, contro i regimi, contro le dittature. Basta essere umani.