Qualche genitore, ogni tanto, questa frase me la confida.
E’ una confidenza, anche nella fisicità: siamo di solito lontano dagli altri, le teste si avvicinano, il tono di voce si abbassa.
In questi momenti mi sento dilaniata. Perchè provo empaticamente tutto il peso che questi genitori sentono sulle loro spalle, quel peso che li soffoca ed è talmente grande da non lasciar spazio a nulla, nemmeno a una parola verso le persone che sono loro più vicine.
“Non voglio che venga giudicato”. Questa è la motivazione esteriore, la prima, spesso, che viene data.
“Non me la sento di dar loro questo dispiacere”.
“Sono fatti miei e non voglio che altri sappiano”.
“Non abbiamo ancora capito come dirglielo”.
I primi mesi sono di metabolizzazione. C’è la necessità quasi fisica di assorbire, meditare, comprendere, masticare.
Bisogna rafforzarsi per poter affrontare “gli altri”.
Per poter affrontare quello che pensiamo sia il loro giudizio, su nostro figlio e su di noi. Perchè la disabilità non è un fatto quotidiano.
E’ mancanza, è assenza, è qualcosa di diverso, è fuori dagli schemi.
Pensiamo agli altri, ma siamo noi i primi a viverla così.
E, per quanto paradossale possa sembrare, il “dichiararsi” è spesso il primo passo verso l’accettazione.
Sbloccarsi verso gli altri consente anche di far fluire all’esterno tutti quei pensieri che ci attraversano la mente fin dall’inizio, di dare uno sfogo a paure e angosce che spezzano il respiro. E l’altro è prima l’estraneo, quello che condivide con noi lo stesso vissuto, ma poi deve essere il “prossimo” in senso fisico e parentale, perchè è solo lì che abbiamo il vivere quotidiano.
(pubblicato per la prima volta a maggio 2012)