Le piante.
Organismi viventi, datori di ossigeno, quindi della base della nostra esistenza.
Sono sempre stata circondata da piante: durante gli anni dell’infanzia e adolescenza erano un elemento caratterizzante le nostre terrazze. Che si trattasse di piante a scopo utilitaristico, come pomodori, zucchini, cetrioli, cavoli che mio padre non si sa bene come riusciva a far crescere nei pochissimi mq del terrazzo ottenendo prodotti incredibili; o che fossero da arredo come le ortensie, i gerani, le rose e le calle che mia madre curava nei pochi spazi liberi dall’orto e che alla fine si è rassegnata a far emigrare nello stretto giardinetto del condominio.
Non avendo un impianto di irrigazione, a me e mio fratello spettava il compito di annaffiare: viaggi e viaggi con un annaffiatoio da 12 litri dalla cucina al salotto. E al cambio di stagione, il trasferimento di tutti i vasi (di pietra) da una terrazza all’altra. Da Nord a Sud e viceversa. Quasi un incubo, di sicuro una gran faticata.
A Milano, nella breve permanenza lavorativa, sono riuscita a far crescere piante rigogliose nonostante la mancanza di sole. Erano l’unico elemento che mi ricordava la luminosità di Firenze. Me le sono portate via con il trasloco, dovendo a malincuore lasciarne un paio per mancanza di spazio nella Pandina che ha raccolto il mio pezzo di vita lassù.
Ho l’abitudine di adottare le piantine che alla Cooperativa di Legnaia mettono nell’apposito contenitore perchè giunte ormai a quasi fine della loro vita e sicuramente non più commerciabili. Armata di pazienza le curo e le faccio crescere di nuovo. Gli voglio bene.
Anche nei miei uffici ho cercato di portare un tocco di colore e vita al grigiore quotidiano. E finchè ho portato piante da casa nessun problema per nessuno, salvo qualche battuta dettata più dall’invidia che altro.
Le piante sono state oggetto di un litigio con una collega, alla quale non mi sono mai più degnata di rivolgere la parola in seguito.
C’era una perdita di acqua dal soffitto, ho spostato due piante di pochi centimetri per evitare di far sgrondare l’acqua sul pavimento e farla invece defluire nel vaso. Mi sono beccata una parte di merda sul fatto di non avere il diritto di spostare di mezzo centimetro i vasi in quando “di proprietà” del soggettino di cui sopra. Ora, al di là del fatto che non erano sue ma del Comune, al di là che non le avevo prese per occultarle in una stanza, penso di non aver potuto nascondere dall’espressione del viso la considerazione che avevo in quel momento della persona che mi stava sbraitando contro. Da quel momento per me è stata invisibile. Quello non era amore per le piante, era senso di possesso mantenuto a distanza (non erano nel suo ufficio ma nel corridoio….).
Sono anche, oggi, un elemento di reprimenda sul fatto che non si possano spostare impunemente piante all’interno del Palazzo.
Ho fatto una riflessione: le piante sono colorate, e più che vive “vitali”. Devono essere quindi inquadrate, irreggimentate, razionate in modo da non permettere che il loro soffio benefico possa ispirare chissà quale forma di “risveglio” delle persone. Grigio, appiattimento, sottomissione alle regole, per quanto assurde possano sembrare. Questo è quello che è diventata l’amministrazione pubblica.
O forse lo è sempre stata, sono solo io che in questi lunghi anni ho voluto portare un paio di occhiali colorati.
Ma quello che non mi è stato consentito con le piante l’ho trasferito sulle sedie, coprendo quanto mi capitava a portata di mano con stoffe colorate e vitali. Un guizzo, un segno, un segnale di vita….