Oggi voglio parlare dell’animo umano.
Che pretesa. Migliaia di scrittori, filosofi, pensatori lo hanno fatto in maniera egregia. Psicologi e psicanalisti hanno scritto interi trattati. Nonostante tutto questo, e nonostante il fatto che ciascuno di noi abbia accesso a tutte queste informazioni che potrebbero, in qualche modo, aiutarci nel nostro cammino di vita, l’umanità continua imperterrita a lasciarsi guidare da istinti primordiali. A cui ne ha aggiunti altri che di primordiale hanno poco, ma che nella società dell’immagine diventano preponderanti.
Tutti noi siamo mossi da qualcosa. Chi si lascia appassionare dalle sorti di una squadra di calcio, chi si butta sul lavoro come fosse l’unica ragione di vita, chi si dedica ad una causa, a volte persa in partenza.
In ogni cosa dovrebbe essere intrinseco il concetto di limite. La vita è un equilibrio, ed è sopratutto molto breve.
Nel mio mondo ristretto delle malattie rare e persone che ne sono in qualche modo toccate, la sofferenza è di solito il filo rosso conduttore. Sofferenza per la diversità dal “normale”, per i risvolti della patologia, per i risultati che questa produce su un proprio caro ecc.
Questa sofferenza può essere sublimata verso il raggiungimento di obiettivi più alti, ma può essere anche dirottata verso un altro sentimento: il desiderio di rivalsa. Sono arrabbiato, lacerato, confuso, reagisco con l’istinto dell’attacco. Difendo il me, cerco di sopravvivere. Non faccio pace con la realtà, rinfocolo in ogni momento il senso di diversità e agisco di conseguenza.
A questo, spesso, si aggiunge un altro sentimento. Visto che la patologia mi rende diverso, che lotto ogni giorno per un riconoscimento, ecco allora che questo riconoscimento deve essere costante nella mia vita, elevato all’ennesima potenza: se non vedo i segni, allora ho davanti un nemico che “non mi considera”. E se non mi considera io lo attacco perché non si rende conto del mio valore, della mia sofferenza, del mio voler esserci a tutti i costi. Questo, in parte, spiega anche il desiderio di visibilità individuale che riscontro spesso nella realtà quotidiana.
In questo mondo di volontari, non sempre quello che muove è il genuino desiderio di dare una mano, elevare. Spesso, se non sempre, il desiderio è quello di prendersi un proprio spazio di visibilità e di soddisfazione personale, quella che non riusciamo ad avere in altri settori della nostra vita, per un motivo o per l’altro.
Un grande equivoco? Non del tutto, perché alla fine qualche risultato queste individualità lo producono. Certo, in modo scombinato, disordinato, spesso inefficiente. Ma risultati, tangibili, ci sono. Occhio, sto parlando della mia realtà, fatta da un macrocosmo di microcosmi puntiformi.
Quanto sarebbe più produttivo concentrare i propri sforzi in obiettivi comuni, cedendo parte della propria individualità a favore di un bene collettivo? Immensamente. Ma non possiamo lottare con gli istinti, se questi non sono stati in qualche modo educati.
E per poterli educare serve la volontà individuale di farlo, di mettersi in un percorso, di porsi degli interrogativi e in conclusione darsi anche delle risposte. Ben poche persone lo fanno. Ben poche fanno pace con la loro storia. E su questo, purtroppo o per fortuna, nessuno di noi ha il potere di intervenire per cambiare qualcosa.
Fin qui tutto bene. O quasi. Poi succede però che si vada oltre. L’obiettivo non rimane solo l’affermazione del sé. Se questo stenta a essere raggiunto, per un motivo o l’altro, la nostra energia viene incanalata verso l’altro, quello che apparentemente ce l’ha fatta, per cercare di distruggerlo. Se non ce l’ho fatta io, perché tu devi invece stare bene (ai miei occhi)? E quindi si agisce, in maniera scellerata, senza nessuna logica apparente, per la distruzione dell’altro. Di solito questo succede quando la propria (in)capacità personale emerge in maniera evidente. A nessuno di noi piace vedere le nostre manchevolezza; figuriamoci quando queste sono evidenziate da prove documentali.
Meccanismo immediato di difesa: mi sento attaccato, colpisco. Alla cieca, senza pensare, senza valutare, senza chiedermi quale sarà il risultato della mia azione. Poi magari scopro che quello che pensavo fosse un attacco era solo un tentativo di supporto, ma non importa. Ho già tirato fuori il coltello.
Se fossimo nell’era del Neolitico o giù di lì, con questo avremmo concluso la storia.
Ma dato che siamo già ad un quarto del III millennio, ci aspetteremmo che dopo l’esplosione istintiva la persona si fermasse a riflettere, attivasse tutti gli schemi mentali che in questi anta anni ci sono stati forniti per riportare lo scoppio a più miti consigli, ragionando su quanto successo e apportando i dovuti correttivi al proprio comportamento.
E se questo non succede e si continua imperterriti con il proprio attacco personale, con colpi alla cieca, dettati solo dalla rabbia personale?
Allo spettatore esterno appare tutta la pochezza della persona, e subentra un senso di pena e dispiacere.
Ciascuno di noi ha potenzialità infinite da poter utilizzare. E capacità peculiari che possono essere sviluppate e, volendo, messe a servizio o semplicemente usate per vivere meglio. Vanno individuate, coltivate, lasciate libere di esprimersi, prendendo atto che quelle sono le nostre potenzialità e altre caratteristiche, invece, non fanno per noi.
Possiamo approcciarci con umiltà alle nostre “aree di debolezza”, cercando con il tempo di rafforzarle e renderle meno deboli, ben sapendo che probabilmente non saranno mai i nostri cavalli di battaglia, ma rendendole più armoniose con tutto il resto.
Ma se non riconosciamo i nostri punti deboli e pensiamo invece di avere capacità che solo gli altri non riescono a vedere? Intanto, se siamo gli unici a vederle, dovremmo chiederci se ci sono davvero.
Questo mi ricorda sempre la barzelletta dell’omino in autostrada che sente la radio “attenzione c’è un pazzo in contromano in autostrada!” e dice “uno solo? saranno almeno 5.000”.
Ma ti viene in mente che forse sei tu quello in contromano? Che forse, ma forse, dovresti farti un sano esame di coscienza e capire dove vuoi arrivare con il tuo atteggiamento?
Essere “controcorrente” a volte è di moda, significa sentirsi parte di una elite che non pensa come gli altri, distinguersi dalla massa. Ma questo riguarda le idee, non la capacità personale.
Mettersi in gioco, con la voglia di imparare: le persone che hanno questa attitudine sono quelle che prima di tutto vivono meglio, ma poi riescono a crescere in maniera esponenziale, perché non danno mai nulla per scontato e sono sempre lieti di imparare, anche se ogni tanto battono delle testate. Ne ho in mente una in particolare (ma gli esempi potrebbero essere decine), che non si è fatta fermare neanche dall’avanzare dell’età, che notoriamente ci rende più stanchi e meno reattivi. Sono le persone che implementano le loro capacità personali, anche quelle più deboli, rafforzandosi di volta in volta. Persone risolte.
Su altre, abbiamo poche speranze. Il problema più grande, per tutti noi ma sopratutto per loro, è che vivono male. E cosa c’è di peggio che vivere male questi pochi anni che abbiamo da trascorrere su questa terra?
Non ci sono storie personali che tengano. Si, ho avuto traumi infantili. Si, sono stata abbandonata, tradita, delusa. E quindi? Tutti noi lo siamo stati, in un modo o nell’altro. Cos’è che distingue chi si stacca da chi non lo fa? La voglia di pensare a qualcosa di diverso, la voglia di non farsi segnare dalla propria storia. In questo cammino, quasi sempre, bisogna essere aiutati. Con la voglia di esserlo, quindi con la volontà di trarre giovamento da quell’aiuto.
Se si rimane ancorati al passato, alle proprie ferite di bambini, non potremo mai combinare niente di buono per la nostra vita e vivremo sempre male, pensando che siano gli altri artefici della nostra infelicità o felicità, quando invece questi stati d’animo dipendono solo ed esclusivamente da noi stessi.
Stamattina anche io sono arrabbiata. Per questo sto scrivendo. Arrabbiata e delusa perché la rabbia cieca che percepisco in altri rischia di rovinare un bene comune che deve invece essere salvaguardato ad ogni costo. A prescindere dai singoli individui. Gli individui sono strumenti, passano e vanno. Ma l’opera rimane. Il difficile è farlo capire e staccare il proprio individualismo dal resto.
La mia rabbia, per oggi, l’ho sfogata nella scrittura, in modo da non far male a nessuno.