La stagione non finisce mai veramente; in estate il fenomeno è più evidente e di diversa composizione qualitativa.
Durante l’inverno arrivano gli innamorati dell’Italia. Vengono a volte anche per un mese o due, studiano l’italiano, viaggiano da soli o in coppia. Si godono bicchieri di vino degustati in calici, adagiati nelle enoteche più piccole che riescono a trovare: si guardano sempre intorno con uno sguardo stupito, quasi bambini nella gioia che si percepisce guardandoli. Sono in Italia, son circondati dalla storia, ogni sasso sembra un monumento.
Poi arriva la primavera, che porta con sé gli studenti e sopratutto le studentesse dei semestri. Sbracciati e con braghe corte i ragazzi, scollate, con minigonne vertiginose e rigorosamente senza calze le ragazze. Si muovono in branco, difficilmente si mescolano con la fauna locale se non per qualche momento fugace, sopratutto bevono, inebriati e destabilizzati dal fatto che in Italia non ci siano (apparentemente) divieti specifici, che in ogni caso non riguardano gli over 18 (in America il limite è 21 e chiedono la carta di identità). Arrivano, si distruggono, non imparano o quasi una parola di italiano, continuano imperterriti le stesse abitudini che hanno a casa, vomitano agli angoli delle strade, si divertono, mediamente, come matti. Ogni tanto qualcuno di questi riesce a percepire, nei momenti che la scuola offre loro, dove sono: sono quelli che torneranno in inverno.
Ed eccoci all’estate. I treni, aerei, autobus di linea accolgono le innumerevoli ed enormi valigie che questa marea umana riesce a trascinare ogni dove. Li guardo salire nelle varie Frecce, sopratutto quelle argento che hanno decisamente portabagagli non adeguati alle misure delle valige americane, guardando sconsolati lo spazio a disposizione nel vano tentativo di quadrare il cerchio. Hanno, in media, due valige a testa (una enorme e una leggermente più piccola) con in aggiunta zaini, poggiacollo, ammennicoli vari. Che già lì, viene da chiedersi cosa debbano mai portarsi con sé in viaggi di piacere in un paese mediamente piuttosto caldo. Beni e vestiti che con il loro trasporto vanificano ogni tentativo di viaggiare in maniera leggera, curiosa, libera. Ma tant’è.
L’atteggiamento, sopratutto, è fantasticamente inadeguato, nella maggior parte dei casi. Uno: parlano solo americano, possibilmente stretto, possibilmente velocissimo. E pensano senza porsi alcun dubbio che tutti debbano capirli. Due: se da un lato sono stati avvertiti che l’Italia è un paese sciamannato, quindi accettano con una sorta di rassegnazione le varie traversie (ritardi, cancellazioni, bivacchi in aereoporti o stazioni non attrezzate per i bivacchi ecc), dall’altro ogni deviazione dalle loro abitudini standard diventa inconcepibile.
Un esempio su tutti: l’aria condizionata. Non sono mai stata in USA, ma i soliti ben-informati mi dicono che da un lato l’energia elettrica non costa praticamente nulla, dall’altro tutti, dai negozi agli alberghi alle case private, mantengono temperature polari all’interno degli edifici. Utilizzando il più possibile tutti gli aggeggi elettrici che possono, anche quando se ne può fare a meno (vedi asciugatrice in campagna). Non sono abituati, educati, ad un rispetto dell’ambiente, ad un uso moderato delle risorse. Nel gruppo di host che frequento il lamento si alza unanime: aria condizionata a 16° per dormire con il piumino, quando fuori ci sono 35° di media. Il piumino. In piena estate.
Il colmo lo ha raggiunto la famiglia che ho incontrato qualche giorno fa. In una casa fresca, a 26° (percepiti meno, dato che non c’è umidità), hanno acceso tutti i condizionatori a 16°, facendo saltare più volte la corrente, pretendendo IMMEDIATAMENTE meno di 20° in casa. Dato che avevano con loro un figlio malato, con febbre alta, che aveva assolutamente bisogno di dormire in un ambiente fresco (sulla concezione di fresco e freddo potremmo fare un trattato). A questa affermazione ho pensato a generazioni di madri italiane che si rivoltavano nelle loro tombe, fremendo per strappare quel povero figlio dalle mani di cotanta madre snaturata, e provvedendo con le loro mani a pannetti freschi sulla fronte, a brodini di pollo e sopratutto a spegnere la temutissima aria condizionata (che è sicuramente stata la causa della brutta laringite che il ragazzo aveva).
In ogni caso, sono letteralmente sclerati. Lì ho capito l’abisso culturale che ci separa. Come possiamo fare a pensare di invertire una tendenza autodistruttiva sul consumo delle risorse di questo pianeta quando intere popolazioni della cosiddetta società del benessere vivono in un ambiente completamente de-naturalizzato?
Ho pensato, anche, a maree di turisti italiani che vanno all’estero cercando ristoranti italiani e lamentandosi che la pasta non è buona. Non siamo, in fondo, molto diversi.
Siamo società sempre più chiuse, sempre meno aperte all’accoglienza del diverso, dell’altro da noi.
E le nostre attitudini, abitudini reiterate e mancanza di flessibilità nei viaggi ne sono uno specchio devastante, che dovrebbe farci riflettere sulla capacità di adattamento che abbiamo, ma sopratutto sulla voglia di confrontarsi con il nuovo che ci si para davanti. Sconsolante.