Astro del ciel, pargol divin…..
Questo Natale lo abbiamo passato all’insegna della tradizione. Basta pranzo a casa della nonna, trasportando cocci e coccini stracolmi di roba da mangiare, pennica sul divano, rientro per cena, in una trasformazione mangereccia della festa della nascita del Signore.
Dove si va per passare un Natale “diverso”? Per noi la scelta è obbligata, nel luogo della nascita della capostipite e teatro di tutti i nostri Natali, Abbadia San Salvatore.
Anni fa, il Natale era la festa di famiglia. Tutti riuniti (o forse meglio stipati) in una delle case a disposizione (spesso la nostra, data la propensione all’accoglienza e alla festa di mio padre), a condividere cibi e aneddoti, vino, carte e giochi a tombola.
Ho ricordi bellissimi legati a quei momenti, che fossero proprio il giorno di Natale o i successivi, Capodanno fine o principio. Lo zio Bruno, appassionato di capitone, che comprava vivo a qualche mercato, una volta se lo fece sfuggire di mano …. e il capitone scivolò lesto nel tubo del lavandino – c’erano ancora i lavandini col buco tondo senza protezione. Non vi racconto i Santi scomodati per l’occasione.
Lo zio Rino si metteva a tavolo, ad osservare il movimento generale, con un bicchier di vino accanto e a volte le carte, se trovava un compagno.
Mio padre sceglieva il posto vicino alla stufa – per lui non c’era mai abbastanza caldo.
Ida, Assuntina, mia mamma – Pupa – con i grembiuli e noi intorno cercavano di dare il meglio di loro per la preparazione: sfoglie su sfoglie tirate fini fini (in questo la zia Assuntina era una maestra indiscussa, con tanto di schiocco), lasciate riposare sulle lenzuola pulite in camera, per diventare tortelli, tagliolini, in qualche occasione lasagne.
Le pentole erano sulla cucina economica, da cui si tirava fuori anche l’acqua calda per tutto: lavare i piatti, cuocere la pasta. Il forno era ricolmo di patate che doravano.
Il tutto corredato da frizzi e lazzi, ricordi di tempi passati e sospiri sui tempi moderni. Con il carattere, a volte ombroso, di ciascuno, che ogni tanto faceva sorgere qualche piccolo litigio che veniva subito rintuzzato.
La cosa più bella era l’arrivo della Befana. Il personaggio era sempre interpretato dallo zio Rino, che aveva il fisico (alto e asciutto) per poterlo fare. Ricordo come fossi spaventata da questa figura che, con più vestiti sovrapposti, qualche grembiale di cucina in sovrappiù, il cappello e la scopa di saggina arrivava con un sacco di juta a portarci caramelle e carbone, di quello vero però, non quello dolce addomesticato di adesso.
Anche quando, più grandicella, sapevo che era lo zio, ero comunque spaventata e diffidente. Lo sapevo, ma insomma un po’ di paura la faceva, così conciato e addobbato. E lui rideva… e gli altri pure.
La sera di Natale era magica. Si lasciavano le case calde per affrontare la discesa fino al paese, dove in ogni piazzetta era allestita una fiaccola, che scoppiettava e diffondeva luce, calore e “luchie”, le scintille che rovinavano immancabilmente i cappotti più belli degli incauti che se li erano messi. Spesso ci accompagnava la neve, in circostanze più sfortunate la pioggia. A volte un vento gelido che faceva passar la voglia.
E con la fisarmonica, spesso suonata da Nada, si andava di fiaccola in fiaccola a cantare le “pastorelle”: i canti tradizionali, da Astro del Ciel a Tu scendi dalle Stelle, passando da Adeste fideles in versione italiana o latina, a seconda del cantore principale.
E Nada, ascoltandoci cantare, immancabilmente stringeva gli occhi e il cuore per le stonature…
Le cantine si aprivano offrendo ai passanti vin bruleè e pezzetti di panettone.
La Messa di mezzanotte era immancabile, al Convento. E solo dopo, rompendo il digiuno di magro, si raggiungevano quelle fiaccole che, sparsi sul terreno i tizzoni e la bracia ancora ardenti, mettevano su vecchie reti di letto salsicce e altra carne da degustare rigorosamente in piedi, con un panino in una mano e un bicchiere di vino nell’altra.
Quindi quest’anno la decisione è stata facile: andiamo tutti in montagna. Trasportata la nonna con carrozzina annessa, abbiamo riaperto casa e cominciati i preparativi. Con una nonna di 93, quasi 94 anni, riuscire a farle passare un Natale “dei suoi” era un regalo che volevamo mettere sotto l’albero.
Il tempo ci ha voluto bene. Mite, delizioso. Con Tonino mastro cantore, che ci ha dato tutti gli appuntamenti e guidati nel giro, ci siamo uniti al coro delle pastorelle e da San Leonardo, a piazza Grande, passando per il Comune e arrivando in Convento, abbiamo cantato ad ogni fiaccola. C’eravamo tutti, in gruppi diversi, ma veramente tutti. Nonna Caterina, con il foglio in mano (anche se dice che non ci vede), ha cantato ininterrottamente per tutte le quasi tre ore che siamo stati fuori. E alla fine, sarebbe anche andata a Messa a mezzanotte… Ma lì le ho messo uno stop.
Con noi, anche i tre pargoli di stirpe Cavalleri, con la bis-bis-bis cugina Alice, che a mezzanotte sono andati con i ragazzi del paese a farsi un giretto di vino caldo e svaporito.
E in giro Luca, Luciana, Varo, Manuela, Tiziano, Donatella, Roberto, Letizia, il Cencio, Lauro, Roberta, Sabrina, Massimo, Serena, Fabio, Sergio…. buona parte dei Nottolini con acquisiti, collaterali e parentado vario.
A Santo Stefano casa nostra si è riempita del ramo Romani della famiglia al completo, per la tombola come da tradizione. Non avendo fagioli, abbiamo dovuto usare i sedanini di pasta e i semi di zucca da sgusciare. La enorme puntata era di ben 10 centesimi a cartella, 60 centesimi per l’estrattore dei numeri. E via con i numeri della smorfia napoletana!
La sera poteva mancare il cinema? Assolutamente no. Via di nuovo quindi, per ammirare in 3D uno dei film di questo periodo.
C’è stato anche tanto cibo: pici, lasagne, roastbeef, stinco di maiale, lesso con pearà e salsa verde – per rispettare anche le tradizioni veronesi -, pandoro con il mascarpone e cantucci con il vin santo. Ma questa volta il cibo, per quanto buono, è stato solo una parte del tutto e non l’attore principale.
E, come ho detto per tutta la sera: ma quando ci ricapita un Natale così?