Un incontro con Padre Paolo, adesso Vescovo in Anatolia, un tempo Gesuita costruttore di pace e seminatore di speranza e virgulti in terra italiana, non si rifiuta mai.
L’occasione del convegno dei vescovi “Mediterraneo frontiera di pace”, promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana, abbinato al “Forum dei sindaci del Mediterraneo”, a Firenze, a cui lui parteciperà, ci offre un’occasione insperata.
Sono sempre più rare le occasioni per potersi incontrare, nonostante i suoi viaggi in Italia siano frequenti. Le incombenze dovute al ruolo e le necessità di quella terra martoriata, aggiunte al fatto che i semi piantati coprono buona parte dell’Italia centrale e visitare ogni virgulto richiederebbe molto tempo, le rarefanno ancora di più.
Proprio per questo è importante esserci, nonostante la stanchezza, il freddo, la voglia di rintanarsi sotto una coperta gridino come prefiche. E sapere che si va per prendere qualche mazzata non aiuta… o forse è uno stimolo in più, per non adagiarsi in questa vita comoda che l’Occidente ha (parole di Paolo).
Trovo un Paolo appesantito da un’età sempre più avanzata, ma palesemente prostrato, come apparirà dalle parole che ci ha regalato dopo, dalla consapevolezza che il potere di incidere su questa terra è ridotto ai minimi termini, se non a volte proprio nullo.
Ci legge la lettera di una donna iraniana. Il padre, pastore, è stato per 30 anni oggetto di ogni sorta di angherie nel loro paese, compresi prelevamenti forzosi da casa, incarcerazioni per giorni o settimane. Dopo 30 anni, prostrati ma sempre convinti della bontà del messaggio, hanno deciso di trasferirsi in Turchia. Dopo 6 anni, fra corsi e ricorsi, si sono trovati con il foglio di deportazione verso l’Iran, rifiutati anche da questo paese.
Molti si sono mossi per farli rimanere in Turchia; altrettanti per fargli avere un visto per l’Italia, compreso il rassegnato ambasciatore. Ma c’è un “sistema” che è più forte di qualsiasi volontà. Che rallenta, affonda, devia e fa scomparire in gorghi improvvisi qualsiasi gesto di umana solidarietà.
Lo stesso sistema che tarda 55 giorni a dare un green pass dall’estero e rischia di far perdere aerei ed appuntamenti se non si trova la persona comprensiva che, con tutti i documenti di vaccinazione (compresi i numeri di lotto), va oltre lo scanner del green pass per attestare, prendendosi delle responsabilità, che il g.p. non c’è ma tutto il resto sì, quindi va oltre l’ultimo atto burocratico stabilendo che i pezzi fondamentali ci sono e quindi si può far passare.
Che c’entra il gp con la vita di 3 persone, 100 persone, 1000 persone, intere comunità? Niente, ma è l’esemplificazione come di burocrazia, se non si esercita l’intelligenza, si possa morire.
Troppo avrei da dire su questo argomento, avendolo provato sulla pelle e sperimentandolo tutti i giorni nei racconti delle persone con malattia rara che rappresento, che si rivolgono alla Federazione per avere ascolto e forse aiuto.
Paolo, nello sconforto con cui prendeva atto, ieri sera, che le grandi manifestazioni, i sit in, le proteste, che ormai non facciamo neanche più, non portano a niente che cambi davvero la vita delle singole persone, ha aggiunto una frase che è il titolo di questo pezzo e che mi rimane. La frase che voglio sedimentare nel cuore e che deve farmi da faro nel cammino quotidiano.
Servire, non servirsi.
La differenza che cambierebbe il modo di esercitare la burocrazia, del nostro fare, di quello che ogni giorni siamo chiamati ad essere.
Servire, non servirsi.
Io al servizio, non il mondo al mio servizio, utile solo a implementare la mia vanagloria o desiderio di possesso o il mio ego o la mia ansia.
Solo il servizio dà autenticità alla nostra azione. E solo riconoscersi strumento e non fine darebbe uno scopo alla nostra esistenza.
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo“
Grazie Paolo.