Leggo oggi un commento di un caro amico, sempre acuto nelle sua analisi di alcuni fatti che riguardano il campo medico (il suo…):
“Se io considero la vicenda di Alfie un disvalore, una storia umana inutile, senza senso, non posso che pensare che prima ne pongo fine e meglio è dato che per certo la fine arriverà. Ma questa cultura dello scarto è ben più parte di noi e della nostra società di quanto pensiamo. Immaginiamo alle risorse economiche poste nella ricerca di modalità di diagnosi prenatali le più affidabili, meno invasive e più precoci possibili di condizioni ( Sindrome di Down in testa) per le quali ad oggi non esiste una cura risolutiva: quale messaggio veicolano queste scelte ? Queste persone sono un disvalore da evitare tanto che io come società investo tempo e denaro, non tanto per la ricerca di una cura, per offrire migliori servizi di riabilitazione, di integrazione sociale, ma per farne una diagnosi la più precoce ed affidabile possibile al fine di mettere i genitori nella condizione e nella “libertà” di decidere se accettare o meno questa “vita in salita”.“
Le sue parole mi hanno aiutata a riflettere sui tanti aspetti etici e bioetici che sono sottesi a tutta la ricerca medica.
Angelo continua: “Da medico che da anni ha avuto ed ha quotidianamente ricevuto il grande dono di seguire “vite in salita”, “vite speciali” non posso che testimoniare da un lato la grande sofferenze e la enorme fatica che spesso accompagna queste storie ma anche la grandezza, la fecondità e la ricchezza di certe esperienze di vita. E posso dire con assoluta certezza che la fatica e la sofferenza oltre che essere certamente parte intrinseca di questi percorsi, sono in una grande misura determinate da una grande difficoltà a costruire approcci socio sanitari adeguati, innovativi ed efficaci. La fatica e la sofferenza traggono spesso origine dalla solitudine che queste famiglie sperimentano nel loro cammino quotidiano, dalla miopia e lentezza della burocrazia, dalla immobilità del sistema che non si lascia interrogare dalla situazione ma procede monoliticamente con i suoi criteri generali, dalla paura di tanti operatori a “mettersi in gioco” a farsi “realmente carico” per la propria parte, per la propria competenza, di quella persona, di quella famiglia di quel bambino, dalla paura di molti operatori di sperimentare vie nuove e soluzioni mai percorse. “
Quindi abbiamo da un lato una “ricerca” che invece che supportare nella cura e nell’accudimento perfeziona le diagnosi per dare la possibilità di scegliere fra vita e non vita; dall’altro un sistema che è graniticamente impermeabile alla diversità e a tutto quello che esce dalla norma, essendo per sua stessa natura “la norma” all’ennesima potenza.
Ho letto con interesse anche i commenti a questo post. Uno in particolare mi ha colpita, quello di una sorella: “Ma in questo contesto qualcuno pensa ai fratelli e sorelle dei “bambini inguaribili”, che non hanno scelto nulla ma si troveranno lo stesso da adulti a gestire queste “vite in salita”?. Ho avuto un fratello meraviglioso che ho amato moltissimo. Con tutto ciò penso che se fosse stato sano, saremmo stati tutti più felici lui incluso. E oserei dire che la cosa è di banalità assoluta. Questa storia della ricchezza che nasce dalla disabilità è retorica da quattro soldi. La diversità è SEMPRE un arricchimento, bella forza. Ma la mancanza di autonomia altrettanto certamente significa una penalizzazione per tutti.“.
Quanta sofferenza dietro queste parole. Quanto non detto, quante ore di accudimento, quante rinunce rispetto ad una vita propria, quante frustrazioni dovute al senso del dovere?
Tanta strada ancora da fare per far sì che nessuno si senta come questa sorella; per far sì che i genitori possano fare solo i genitori e non anche i terapisti, i medici, gli operatori, i sostegni dei loro figli con minori autonomie; perché la diversità sia inglobata nella normalità come parte ineluttabile e non scindibile della stessa….