Il titolo ha attirato, per vari motivi, la mia attenzione. Il luogo, Firenze. La connotazione “disabile”.
Ma qualcosa, in qualche modo, stonava. La ragazza “aveva un lavoro”.
Ho lasciato sedimentare pensieri, emozioni, avvolgendo tutto in una cappa di nebbia per avere il tempo di pensare. Ho trovato un link a Presa Diretta, che ha dedicato un servizio a questa vicenda. Ho seguito l’intervista ad un’amica, della comunità di Sant’Egidio, della povera ragazza assassinata. L’amica che, visibilmente commossa, racconta tante cose del loro percorso di vita insieme. Come avevano scherzato sulla possibilità di invecchiare insieme, tutte e due in carrozzina, con l’età che avrebbe azzerato le differenze fisiche fra le due. Ma…. c’è un ma. Il padre “non aveva mai accettato” la condizione della figlia.
Qui i segnali di allerta si sono scatenati, insieme ad una quasi rabbia. Un padre che non dà il diritto alla propria figlia di avere la sua vita, facile o difficile che sia. Un padre che la considera, alla fin fine, poco più di un oggetto, anche se le vuole un bene dell’anima. Ma è un bene “egoista”, che non arriva a considerare l’altro come diverso da sé; è un bene “possesso”. Galimberti lo direbbe sicuramente molto meglio di me, ma la percezione che ho è quella di un amore che non riesce ad andare oltre.
Quanto spesso lasciamo che le famiglie elaborino il lutto di un figlio che considerano non perfetto da sole? Quanta disumanità c’è nel consegnare un fagottino con necessità spesso al di sopra delle forze umane senza neanche uno straccio di supporto psicologico, ancora prima che economico?
Non si nasce imparati neanche al mestiere di genitore, chi ci prepara a essere genitori di bambini con bisogni speciali?
Mentre continuavo a riflettere, in quello che io chiamo retro-pensiero, che si scatena di solito quando stiro o faccio la doccia (momenti di riflessione per eccellenza, forse perchè sono i soli momenti miei che ho), ho pensato anche un’altra cosa: ma come mai questo assassinio, perpetrato nei confronti di due donne, non è stato chiamato “femminicidio”? Perchè la condizione di disabilità deve passare, ancora una volta, sopra il fatto di essere prima di tutto un essere umano, a cui si aggiunge la qualifica di “sesso femminile”?
Se prima era “quasi rabbia” adesso è rabbia pura.
Perchè un padre, nato 82 anni fa, con una mentalità di un altro secolo, posso capirlo e cercare di scusarlo.
Ma tutto il resto del mondo, che in questo ennesimo femminicidio compiuto pochi giorni prima della Giornata Internazionale della Donna vede solo un padre e una disabile, non lo posso più scusare. Chiamiamo, per favore, le cose con il loro nome.
Vediamo, per favore, la cosa con gli occhi di quella donna che aveva una sua vita, il suo lavoro, le sue amicizie, i suoi interessi, i suoi entusiasmi, accanto alle difficoltà di vivere in carrozzina. E alla quale tutto questo è stato negato perchè qualcun altro ha deciso che lei non era degna di vivere, non era capace a suo dire di vivere senza aiuto (proprio il “suo”, non un aiuto in generale).
E con gli occhi di quell’altra donna, lasciata da parte in tutti gli articoli, cancellata due volte: la mamma, arrivata in fondo ad una vita sicuramente dura, con una pena infinita nel cuore per tutte le sofferenze della figlia, ma che aveva anche lei una sua vita, un suo percorso, un suo perchè. Anche a lei la vita è stata strappata in un soffio.
Fino a quando gli uomini si arrogheranno il diritto di decidere per e sulla nostra vita?