Ed ecco l’altra sera salire in tranvia un ragazzo.
Cuffie con grandi copriorecchie, maniche corte nonostante i primi freddi. Aria sorridente, balla sulla banchina prima di salire.
Entra, percorre prima tutta una parte delle carrozze, sta un attimo fermo e poi ritorna indietro, si dirige esattamente dalla parte opposta. Continua a sorridere, ha smesso di ballare ma a volte accenna un passo.
La gente lo guarda.
Mi passa accanto, e non posso fare a meno di pensare a sua madre. A quella mamma che l’ha cresciuto, che sicuramente sa che in questo momento è fuori, che forse è anche angosciata per lui, per come la gente lo guarda, per come lo giudica. Quella mamma che sarà stata contenta di ogni piccolo progresso che ha fatto nel corso dei suoi anni, che avrò assistito impotente ll’arrivo allo stadio di sviluppo massimo, quello oltre il quale non è possibile andare.
Cosa farà, dove sarà, cosa starà pensando in questo momento quella mamma? Aspetta ansiosa un rientro, rassegnata e stanca?
O chissò, magari un mamma non c’è, non è dato saperlo.
Intanto il ragazzo ha alzato la voce, sta imprecando con parole pesanti contro una persona straniera, dando giudizi sulle “loro donne”, compiacendosi delle parole crude che sta pronunciando.
Scendono poi tutti dalla tranvia, li vedo dal vetro continuare a discutere, chissà… forse un giorno troverò sulla sua strada qualcuno che non capirà, e allora potrebbero essere problemi seri, pugni o chissà cos’altro.
Per il tratto di tre fermate io sono stata la sua mamma, ho vissuto nella sua la mia storia.
(Pubblicato per la prima volta a novembre 2012)